L’ansia racconta

L’aria non basta. Il cuore, silente a tempo indeterminato, si fa sentire: bussa al petto e poi alla gola. Si suda, ma non fa caldo. Le gambe non reggono più al peso del corpo e, da stabili pilastri divengono stampelle d’argilla. Il cervello smette di pensare e di parlare al corpo, che invece urla “Aiuto!”. La preoccupazione divampa, come un incendio senza causa apparente. Ma nulla accade mai a caso. La sfida è ricercare il senso di quanto è solo in apparenza insensato.

Quanto descritto si chiama ansia e racconta il bisogno di essere rassicurati. Arriva, senza preavviso; irrompe, senza chiedere il permesso; disorganizza, sempre.

I bambini non ne sono immuni: l’ansia raggiunge le loro vite e sconvolge le loro famiglie.

Finché si è bambini (e a volte non solo), la mano del genitore guida e rassicura. Ma dove c’è un bambino ansioso, c’è sempre una famiglia preoccupata. Il rischio allora, è che il bambino chieda rassicurazione a chi ha bisogno di essere rassicurato. E così, a stringersi sono due mani tremanti; due cuori spaventati. Perché ansia e paura si tengono sempre per mano: l’ansia fa paura e la paura genera ansia. Esistono poi paure inenarrabili, cui l’ansia può dar voce. Ma proprio ciò che non si può dire merita di essere ascoltato. Il sintomo ansioso allora, veicola un messaggio da decifrare, la paura da raccontare.

Il genitore si trova ad un bivio: spostare lo sguardo dal disagio del figlio o ricercare lenti che lo ingrandiscano. Certamente, in discesa sulle montagne russe, guardare altrove limita la paura, ma non la cancella. La vita inoltre, non è una giostra: paura e preoccupazione non scompaiono a giro concluso. Bisogna avere (o trovare) il coraggio di guardare al proprio figlio e all’ansia che lo abita. Anche perché, i figli hanno sempre bisogno di essere guardati dai genitori, per sentirsi visti, per attestare la propria esistenza, per conoscersi e ri-conoscersi.

Aggrappandosi alla mano dei genitori, i figli possono guardare alla propria ansia e provare a decifrarne il messaggio. Con i genitori accanto, la paura terrorizzerà meno e la preoccupazione sarà meno invalidante. Non occorre però che i genitori non abbiano paura; sarà importante invece che trovino il coraggio, per stare accanto al bambino, per guardare con lui quell’ansia invalidante, per provare a tradurla. Già questo, infonderà sicurezza. La vicinanza è infatti di per sé un’esperienza terapeutica. Assieme ai genitori, sarà possibile attraversare la complessità, andare oltre ciò che accade per comprendere perché è accaduto.

E allora, ai genitori il doloroso (e doveroso) compito di trasformare la domanda: non più “come ne usciamo?”, ma “perché ci siamo finiti dentro?”. È così che le famiglie si incamminano alla ricerca di quel perché, martellante ma necessario.

Ma che cos’è che può turbare la vita di un bambino? Molteplici le cause. Altrettante le risposte. Il messaggio criptato del sintomo può celare la paura della morte, o della vita; della solitudine o della vicinanza; della necessità di crescere o della possibilità di restare bambini. La risposta va sempre ricercata nella storia personale. Inoltre, tutti i figli sono dotati di antenne sensibili alla preoccupazione dei genitori. Non conta quanto questa preoccupazione sia stata loro esplicitata o taciuta. E così, spesso, la preoccupazione dei genitori si trasferisce al figlio, che la amplifica e la trasduce in sintomo.

Non è utile preoccuparsi assieme di non preoccuparsi; suggerire: “Distraiti!” o “Riempi il tuo tempo, così da svuotare la tua mente!”. Per poter arginare bisogna prima accogliere; per poter capire bisogna prima ascoltare. E tutto ciò accade sempre lontano dal silenzio. Mai come quando si soffre, occorre essere famiglia e funzionare come tale. La risposta attivabile dai genitori allora, è avviarsi alla terapia assieme al figlio. Narrare per ritrovarsi, per incontrarsi nuovamente al di là del sintomo, dove l’ansia lascerà il posto alla sicurezza e, la speranza prenderà il posto della paura.

 

Bibliografia

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