Educare alla gentilezza

Era il 1982. Anne Herbert era seduta al tavolo di un ristorante e improvvisamente la sua testa si riempì di parole che composero una frase: “praticate gentilezza a casaccio e atti di bellezza privi di senso”. La scrisse su un tovagliolo e poco dopo la sua frase è diventata uno slogan pacifista.

Parole contagiose, che hanno fatto il giro del mondo, seminando riflessioni. Perché “con la gentilezza si può scuotere il mondo” sosteneva Gandhi. E ciò spiega l’importanza di educare alla gentilezza sin dalla più tenera età.

In una società sempre più improntata ai principi dell’individualismo e dell’egoismo, in una comunità che orienta a primeggiare e che spinge alla corsa solitaria, l’educazione alla gentilezza diventa antidoto e cura per ripristinare relazioni profonde e significative con gli altri. La gentilezza va al di là della buona educazione. Essere gentili non significa meramente chiedere scusa, dire grazie, chiedere per favore. È un atteggiamento a più ampio spettro e respiro, che implica una serie di comportamenti e atteggiamenti tesi a favorire il benessere dell’altro, ad aprire e avviare relazioni positive e connotate da condivisione, supporto, reciprocità e accettazione dell’altro, come diverso da sé e degno di valore.

Educare alla gentilezza, quindi, equivale ad aggiungere gocce di empatia nel carattere e nella struttura di personalità di un bambino. Significa abituarlo ad ascoltare con il cuore, prima ancora che con la testa. Significa insegnargli ad essere un adulto premuroso, attento, responsabile, sensibile.

La gentilezza, secondo il parere di Franck Martin, custodisce il segreto per instaurare relazioni solide, autentiche, di fiducia; è un bene complesso e potentissimo, che appartiene a ciascuno di noi, ma che va riscoperto e praticato quotidianamente, perché porti i suoi frutti migliori.

La gentilezza, che ha una base e una matrice innata e fa parte del nostro corredo alla nascita, va dunque allenata quotidianamente.

Esula dalla persuasione e non si raggiunge attraverso istruzioni. È poco funzionale dire “Si deve fare così”. Perderebbe il suo valore autentico e pieno. I bambini possono essere educati alla gentilezza solo attraverso l’esposizione ad esempi e a gesti gentili, connotati di gratuità, incondizionati, fini a sé stessi.

Più i bimbi avranno modo di vivere atteggiamenti rispettosi e cordiali, più saranno portati a replicarli, perché considerati la normalità. È importante che l’adulto offra l’esempio di comportamento gentile sia verso gli altri adulti, ma anche e soprattutto verso i bambini stessi. Essere trattati con gentilezza è il miglior modo per sperimentare quanto sia importante essere gentili con gli altri. Sperimentare il benessere su di sé, che deriva da una parola o da un gesto che “cura”, significa scoprirne il senso profondo e costruire una motivazione intrinseca, scevra da interessi altri, perché alimenti e nutra il gusto di replicare quella esperienza.

Non occorrono gesti plateali o speciali di gentilezza. “Nessun atto di gentilezza, per piccolo che sia, è mai sprecato”, sosteneva Esopo. Cominciamo allora dalla relazione in casa, dall’interazione con i nostri piccoli, per poi estenderla al resto della comunità. La gentilezza, valida alleata dell’empatia, ha bisogno di relazioni calde a partire dalle prime interazioni madre-padre-figlio, e di permeare questa relazione per poter essere portata all’esterno. La famiglia rappresenta il contenitore emotivo in cui il bambino sperimenta tutti i colori e le sfumature di emozioni e  di valori. Sostegno, rispetto, altruismo, sensibilità, tolleranza, ascolto, empatia, gentilezza, sono solo alcuni dei pilastri e delle sfide educative che un genitore è chiamato ad affrontare nel difficile ma entusiastico percorso della crescita e che costruiranno le basi per promuovere un atteggiamento teso alla cooperazione anziché alla competizione. La gentilezza, come ogni altra abilità e competenza affettiva ed emotiva, ha bisogno di organizzarsi e di strutturarsi nel corso dell’infanzia, a partire dalla relazione con le persone da cui il bambino è emotivamente dipendente e che gli forniranno un imprinting “emotivo e relazionale” su cui si costruirà e si declinerà tutta la sua identità futura.

 

Bibliografia

Holmes J., (2017), La teoria dell’attaccamento. John Bowlby e la sua scuola. Milano, Raffaello Cortina Editore

Goleman, D. (1996). Emotional Intelligence: Why It Can Matter More Than IQ. New York, NY: Bantam Books. Trad. it. (1998). Intelligenza emotiva. Milano. Rizzoli.

Martin F., (2016), Il potere della gentilezza. 16 regole d’oro per ottenere e dare. Feltrinelli

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