I momenti di incertezza e di sconforto generati dal “dubbio procreativo” debbono trovare la coppia pronta a sostenersi sul piano emozionale e a cercare adeguate strategie operative per le decisioni da prendere. Quando il “dubbio procreativo”[1] diventa persistente la coppia si può rivolgere ad un Centro per procreazione medicalmente assistita (PMA). Si tratta di un passaggio critico, una decisione piena di incognite in quanto la coppia entra in contatto con un mondo sconosciuto, regolato da prassi e procedure mediche dove spera di trovare una risposta risolutiva al desiderio di avere un figlio. È un percorso emotivamente insidioso e dall’esito incerto che i coniugi vivono in una condizione di estrema vulnerabilità[2].
In questa fase la coppia comincia a confrontarsi con un evento da sempre connotato come un tabù sociale e culturale: la possibile sterilità biologica. È quindi indubbio che sia necessario fare un profondo lavoro motivazionale per permettere all’individuo, alla coppia e alle rispettive famiglie d’origine di non concentrare gli sforzi soltanto sulla riuscita del progetto di far nascere un proprio figlio, ma anche di sapere costruire uno spazio emotivo e mentale per accogliere e contenere le angosce correlate con l’eventuale fallimento di questo progetto. Le sensazioni e le emozioni che più spesso i coniugi vivono e che non sempre condividono, sono un senso di profonda solitudine e di impotenza dopo aver sperimentato che tutto quello che potevano fare è stato fatto. I coniugi si cominciano a chiedere di chi è la responsabilità di questo insuccesso che può alimentare ulteriori emozioni negative come la vergogna e il senso di colpa nei confronti del partner. Il fantasma della sterilità biologica è una minaccia potente che modifica profondamente sia l’identità maschile che quella femminile. Durante la fase del “dubbio procreativo” è come se la coppia si sentisse in un tempo sospeso, in un limbo, come in attesa di una sentenza più che di una valutazione rispetto alle proprie difficoltà; è chiamata a fidarsi ed affidarsi nelle mani di un terzo da cui sente dipendere il proprio destino. Il medico viene investito da una parte di un potere magico e risolutivo, ma allo stesso tempo, è anche vissuto come un intruso che stabilisce tempi e regole alla vita sessuale della coppia[3]. Nella nostra società sono ancora presenti molti pregiudizi nell’affrontare la sterilità maschile e quella femminile; pochi semplici esami sono sufficienti per verificare la fertilità dell’uomo, mentre per la donna esami analoghi sono molto più invasivi e dolorosi. Eppure ancora oggi esistono molte resistenze da parte degli uomini a sottoporsi a queste indagini cliniche a causa di stereotipi culturali collegati con la sessualità/fertilità/virilità maschile e di tabù sociali che impediscono di parlare di questo argomento; inoltre la pratica clinica tende ad iniziare questi esami esclusivamente con la donna. Nonostante per molte coppie lo sforzo della procreazione medicalmente assistita si risolva con un successo che si realizza con la nascita di un figlio tanto desiderato quanto sofferto, per quelle coppie a cui viene comunicata una diagnosi di infertilità, al contrario, si apre una fase drammatica della vita. Al dubbio coltivato a lungo, si sostituisce ora la certezza di non poter avere un figlio proprio. La coppia si sente svuotata, invasa da un senso di angoscia profonda. Quando una coppia viene a sapere che non potrà generare un figlio proprio, sente compromessa la possibilità di realizzare il progetto più ampio di diventare una famiglia. Quando arriva la diagnosi di sterilità biologica sancita da un team medico, al primo fallimento, vissuto quando la coppia aveva deciso di avere un proprio figlio senza riuscirci, se ne aggiunge un secondo, spesso definitivo. Come il desiderio di un figlio pone i membri dell’intero sistema famigliare in condizione di attesa, la mancata generatività della coppia fa sentire sterili anche le diverse ramificazioni affettive della famiglia compromettendo la nascita di quei ruoli parentali di nonni, zii, cugini connessi con la nascita di un figlio. Come sostengono Soubieux e Soule, sul piano individuale la sterilità biologica può rappresentare una grave ferita dell’identità psicologica sociale e corporea che implica una rinuncia definitiva alla realizzazione dell’ideale dell’io e che può sfociare nella depressione, nell’impoverimento narcisistico e nell’annientamento[4]. L’evento della sterilità è assimilabile ad un lutto improvviso e quindi come tale ha un alto potere di destabilizzazione emotiva con ripercussioni significative sul piano soggettivo coniugale e intergenerazionale nonché sulla rete delle relazioni sociali. Il corpo viene ora considerato inaffidabile[5]. La diagnosi di sterilità mette a dura prova gli equilibri interni ed esterni che la coppia ha costruito fino a quel momento e la mette di fronte alla necessità di ricontrattare il patto coniugale. È come se la coppia dovesse di nuovo sposarsi, ri-scegliersi ed in questa fase o si attivano nuove risorse capaci di alimentare il legame o al contrario possono riaffiorare conflitti irrisolti che ne minano la coesione. L’evento, infatti, per la sua portata drammatica, potrà essere vissuto come un tradimento del patto coniugale, generando forti sensi di colpa da parte di chi si sente sterile o, al contrario, porterà il partner “sano” ad assumere atteggiamenti protettivi o evitanti per la paura di offenderlo o di farlo sentire a disagio nelle relazioni extra famigliari[6]. Talvolta, per il timore di esporre il partner ritenuto la causa della mancata generatività alle critiche delle famiglie di origine, si trova un compromesso di facciata: viene comunicato che la causa della sterilità è sconosciuta o è dovuta ed entrambi.
[1] ANDOLFI, M., CHISTOLINI, M., D’ANDREA, A., La famiglia adottiva tra crisi e sviluppo, Franco Angeli, 2017, pp. 84-85
[2] Cit.
[3] Cit.
[4] SOUBIEUX, M.J., SOULE’, M., La psichiatria fetale Milano: Franco Angeli, 2007.
[5] D’ANDREA, A., La coppia adottante, in Andolfi M., (a cura di) La crisi della coppia, Milano: Raffaello Cortina, 1999.
[6] ROSNATI, R., Motivazioni e aspettative delle coppie nei confronti dell’adozione: un’analisi empirica. Bambino incompiuto. 1988, pp. 77-98.